Un professore di Sociologia del diritto e un magistrato discutono del carcere della magistratura di sorveglianza in una società che cambia, mentre l’Ordinamento penitenziario compie quarant’anni.
Francesco Maisto è uno di quei giudici che hanno fatto la storia della magistratura di sorveglianza in Italia. Nel dicembre del 2015 ha lasciato l’incarico di Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna ed è andato a riposo. Abbiamo rievocato con lui alcuni aspetti di quella storia.
colloquio con Francesco Maisto a cura di Claudio Sarzotti
Come sei entrato in contatto con il lavoro di magistrato nell’ambito dell’esecuzione penale?
Scelsi le funzioni di magistrato di sorveglianza a Milano nel 1980, quindi qualche anno dopo la riforma penitenziaria (entrata in vigore nel 1975, N.d.a.). Avevo dovuto aspettare, facendomi le ossa come sostituto procuratore al Tribunale per i minorenni di Milano prima e come giudice istruttore a Napoli poi. L’ordinamento infatti non permetteva ai magistrati “di prima nomina” di diventare subito Magistrato di Sorveglianza. Ma quella funzione mi affascinava, fin dai tempi del tirocinio. Era stato il mio primo maestro, Igino Capelli, a farmi conoscere “l’inferno dei vivi” nel carcere di Poggioreale (non a caso vicino al cimitero), nel manicomio criminale di Sant’Efremo (dove conobbi “il Giulio Cesare” che per anni mi ha poi scritto, sempre avvolto nel solo lenzuolo bianco sporco), nel carcere femminile di Pozzuoli (dove il 23 dicembre 1974 morì bruciata dal fuoco, legata su una “balilla” per la crocifissione femminile, Antonia Bernardini), nel penitenziario di Procida in una notte insonne per il mare alto e le proteste dei galeotti. Volevo portare un barlume, un pò di giustizia tra i “dannati della terra” e la necessità della regola per gli impuniti, i privilegiati, i privati padroni del carcere. Eravamo ai primordi della magistratura di sorveglianza come la intendiamo oggi e nella cultura professionale dei magistrati non c’era la percezione dell’identità di una vera e propria attività giurisdizionale, soprattutto in tema di libertà personale. Le prime ordinanze dei magistrati di sorveglianza sembravano sintetici provvedimenti amministrativi; il fatto reato, l’argomentazione giuridica, la motivazione erano pressoché inesistenti. Le riviste giuridiche non pubblicavano quelle ordinanze considerandole insignificanti per la dottrina. Solo dopo alcuni anni le riviste giuridiche il Foro Italiano prima e Rassegna penitenziaria e criminologica poi diedero spazio al diritto penitenziario, pubblicando le prime ordinanze commentate. Neanche l’università si interessava all’insegnamento di quella branca del diritto, considerata priva di contenuto scientifico. Il primo corso di diritto dell’esecuzione penale fu quello completamente costruito da Vittorio Grevi all’Università di Pavia, proprio nell’anno della riforma. Il gruppo dei magistrati di sorveglianza era di piccole dimensioni e noi giovani seguivamo grandi maestri come Igino Cappelli, Sandro Margara, Mario Canepa, Giancarlo Zappa (mio storico e appassionato difensore nei procedimenti disciplinari davanti il Consiglio Superiore della Magistratura), diversi per estrazione culturale e politica, aderenti a correnti diverse dell’Associazione Nazionale Magistrati, ma tutti accomunati, senza rivalità, dalla comune passione civile per l’affermazione della legalità costituzionale della pena detentiva nei confronti di persone in carne e ossa e della loro dignità. Ci rendevamo subito conto che bisognava sfuggire alla logica dominante dei benefici penitenziari come graziosa concessione, o peggio, come premi occulti per “spie” galeotte o pentiti ante litteram.
Che rapporti avevate con il mondo del carcere, con gli operatori penitenziari, i direttori degli istituti? Vi recavate spesso in carcere?
Erano relazioni di rispetto e di stima reciproca, per nulla burocratizzate, molto informali, soprattutto con gli educatori e gli assistenti sociali. Ci sentivamo accomunati dalla “missione” di cambiare il carcere con l’attuazione della legge penitenziaria. Avevamo instaurato rapporti proficui anche con le associazioni di volontariato, che allora erano abbastanza rare. Non ci fermavamo mai alla sola analisi delle carte processuali, cercavamo di andare oltre, di scambiarci costantemente informazioni informali per capire meglio la personalità dei condannati, condividendo un linguaggio comune che ci permettesse di lavorare bene insieme, ma nel rispetto dei ruoli.
Posso dire di aver davvero vissuto in prima persona la travagliata storia della magistratura di sorveglianza e oggi, riguardandomi indietro, distinguo almeno quattro fasi. La prima, durata circa dieci anni, segnata fin da allora da controriforme, in cui i rapporti dei magistrati di sorveglianza con l’istituzione penitenziaria si caratterizzavano per una massima intrusione. Pur preservando l’indipendenza e l’esclusiva soggezione alla legge, i magistrati di sorveglianza crearono rapporti proficui – anche se non mancavano i conflitti – con i direttori degli istituti, in quanto gran parte della loro attività si svolgeva fisicamente in carcere. Molte udienze della Sezione di sorveglianza (secondo la denominazione di allora) si svolgevano nelle carceri. Le visite e i colloqui dei magistrati con i detenuti avevano frequenza settimanale; colloqui ai quali si accompagnavano le “chiacchierate” all’ingresso con gli educatori, gli assistenti sociali, il direttore. Erano rapporti per nulla burocratici. Se, ad esempio, il detenuto lamentava che gli era stato somministrato un farmaco scaduto o diverso da quello richiesto, ricordo che si usciva dalla sala colloqui, si chiamava il direttore e si verificava immediatamente la fondatezza della lagnanza. Alcuni direttori rimanevano fedeli al loro mandato e collaboravano per rendere meno incivili le condizioni carcerarie, altri si arroccavano sulle loro posizioni e non gradivano quelle interferenze adottando un comportamento più burocratico, di chiusura, quasi a nascondere realtà illegali. Destava meraviglia che il magistrato di sorveglianza, per dovere istituzionale, denunciasse con rituale rapporto alla Procura della Repubblica gli atti di violenza verso taluni detenuti, perfino gli appalti truccati degli alimenti per la mensa del carcere, i casi di lavoro in nero, le lavorazioni domestiche in violazione della normativa antinfortunistica, le violazioni di norme di sicurezza e l’assenza di mezzi antincendio.
Nel carcere di Monza, anche per queste omissioni, morirono bruciati due giovani asserragliati in una cella per protesta. Ma in genere i rapporti con i direttori erano positivi. I conflitti nascevano soprattutto per quel traghettamento dell’istituzione penitenziaria da un’isola di illegalità e di impunità a un luogo conformato alla legalità repubblicana e costituzionale, che rappresentava l’obiettivo principale della riforma. Ricordo ancora l’ispezione e l’intensa attività per far chiudere definitivamente le celle umide, scrostate, prive di servizi igienici e di acqua, occupate da esseri umani, nei sotterranei di San Vittore: il confino logistico chiamato “ai topi”. Era il carcere come cloaca, ma anche il carcere violento, dei killer, degli accoltellamenti, dei sequestri di persona eterodiretti: una prateria. La legge penitenziaria aveva dato l’innesco, ma poco cambiò. La seconda fase, di preparazione e di attuazione della legge Gozzini, a metà anni Ottanta, per quanta segnata dalle ferite e dal dolore della lotta armata – e in particolare della campagna armata contro il carcere e delle rivolte – fu anche caratterizzata dalla sperimentazione delle nuove misure alternative e dei permessi premio come parte, per un verso, di una strategia diversificata di contrasto della criminalità, anche col reinserimento sociale e, per altro verso, della giurisdizionalizzazione della pena. Era il carcere che, rinnegando istanze disperate di morte, cercava la vita e la speranza. Ricordo l’impegno attivo del cardinale Martini con le sue visite a San Vittore e la pubblicazione dei due libri Sulla Giustizia e Non è giustizia. Era anche il carcere dal quale partivano, da parte della criminalità organizzata, messaggi di sopraffazione verso magistrati ed educatori per ottenere spazi di libertà con le misure alternative. Gli anni della Falange Armata e dell’omicidio per mano di ‘ndrangheta, dell’educatore del carcere di Opera, Umberto Mormile, l’11 aprile 1990.
La terza fase, negli anni Novanta, è quella della chiusura, del carcere balcanizzato, delle restrizioni per opera dei divieti e delle ostatività del 4 bis, dopo la strage di Capaci che, ancora una volta, come tutti i drammi italiani, scaricava subito sul penitenziario le colpe dell’inefficienza della politica criminale. Si caratterizzò per la ritrazione dei magistrati di sorveglianza dal carcere con la teorizzazione che la giurisdizionalizzazione e la conseguente terzietà del giudice comportasse lo stare “fuori” dal carcere per stare “sopra” la vicenda processuale. E dunque, non più il giudice difensore, come anni prima aveva teorizzato Cappelli ne Gli avanzi della Giustizia. Gran parte della magistratura di sorveglianza aderì nei fatti alla politica della certezza della pena e delle timide pene alternative, ma certe e determinate, inflitte dal solo giudice di cognizione, in contrapposizione alla tesi, avanzata anche da periodiche sentenze della Corte Costituzionale, della flessibilità costituzionalizzata delle misure alternative. In barba alla contrapposizione delle tesi ci pensò il legislatore a sfornare leggi carcero-centriche, che fecero del carcere il luogo della detenzione sociale. Le “carceri d’oro”, disfunzionali e criminogene, erano pronte per tossici, migranti, disabili psichici e sociali, e tuttavia insoddisfacenti al contenimento del sovraffollamento crescente e decennale.
La quarta fase, quella degli anni Duemila, ormai segnata dalle tre famigerate leggi liberticide (la ex Cirielli, la Bossi-Fini e la Fini-Giovanardi), dal sovraffollamento esponenziale e dallo stigma della tortura inflitto dalle condanne della CEDU, la rappresenterei come quella dell’esame di coscienza della magistratura di sorveglianza, chiamata finalmente a occuparsi di nuovo del carcere. Ma anche in questa fase si sono espressi, da una parte, timidi tentativi inneggianti alla detenzione domiciliare prevista dalla legge Alfano e, dall’altra, con la forza trainante della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, posizioni più coraggiose e razionali di alternative al carcere, finalizzate allo smantellamento del robusto arsenale penalistico.
Hai avuto l’impressione che la riforma del 1975 cadesse in una cultura giuridica non pronta a recepire quel tipo di messaggio normativo?
Certamente non lo erano la cultura della magistratura in generale, dell’accademia e dell’opinione pubblica. Emblematica fu la vicenda degli immediati e ingiustificati procedimenti disciplinari, quasi uno sparo nel gruppo, nei confronti di cinque magistrati di sorveglianza per colpa della concessione di permessi a condannati che non erano rientrati dalla misura alternativa. Si trattava, come dimostrò un’indagine statistica del Consiglio Superiore della Magistratura a livello europeo, di percentuali molto basse e assolutamente in linea con quelle degli altri Paesi, ma i procedimenti “intimidatori” furono ugualmente avviati, anche se finirono con assoluzioni. Credo che, invece, l’istituzione penitenziaria, in generale, sia stata molto più recettiva delle nuove misure, perché capiva che la riforma penitenziaria sarebbe stata non soltanto una valvola di sfogo per i detenuti, ma che avrebbe migliorato l’immagine pubblica degli operatori penitenziari, polizia ed educatori: non più solo custodi e girachiavi. Ma la riforma non fu attuata che in minima parte.
Una delle richieste che durante le rivolte degli anni Settanta i detenuti avanzavano sempre era quella di coinvolgere la stampa, con l’obiettivo di far passare le informazioni all’opinione pubblica. Come voi magistrati di sorveglianza avete cercato di sensibilizzare gli organi di informazione?
I detenuti, quando organizzavano le rivolte e le proteste, sia collettive che individuali, non chiedevano soltanto la presenza dei giornalisti in carcere, ma anche quella dei giudici di sorveglianza, da una parte per informare la cittadinanza civile delle drammatiche condizioni di vita e delle non attuazioni della riforma, dall’altra per garantirsi contro i trasferimenti punitivi in carceri più rigorose. Quindi noi c’eravamo sempre. Conservo un intervento del Ministro Vassalli che teorizzava come il giudice di sorveglianza dovesse farsi portatore nella società di informazioni sulle condizioni nelle carceri. Ricordo ancora una puntata del Maurizio Costanzo show sulle carceri con il giudice costituzionale Malagugini, Mario Tommasini di Parma (il promotore di Liberarsi dalla necessità del carcere), l’etologo Mainardi (su animali-uomini e spazio vitale), Dario Fo e Franca Rame.
Le rivolte avvenivano per i motivi più diversi; bisognava essere pronti a intervenire, a ogni ora: non esistevano i telefoni cellulari. Abitavo non molto lontano da San Vittore e il mio telefono fisso squillava spesso, anche di notte. La Questura aveva a disposizione il numero del ristorante in cui a volte andavo a cenare. Le rivolte potevano ad esempio scoppiare contro le cosiddette “bocche di lupo”: finestroni che non davano la possibilità di vedere dall’esterno, ma che consentivano solo il passaggio dell’aria e della luce. Proprio come la bocca aperta di un lupo. Riuscii a farle demolire tutte, anche per la professionalità del direttore e l’impegno economico dell’amministrazione penitenziaria.
La riforma, come racconta Christian De Vito in Camosci e girachiavi, il lavoro più completo sulla storia del carcere nell’Italia repubblicana, è stata il frutto dello spirito riformatore degli anni Sessanta, ma venne emanata in un clima politico-culturale che aveva preso una direzione diversa con gli incombenti anni del terrorismo?
Il giro di vite non fu solo conseguenza del terrorismo; il vento anti-riformatore era anche di carattere culturale. Le prime restrizioni alla riforma avvennero già nel 1977 con una limitazione normativa delle misure alternative. Ma ancora più rilevante fu la costituzione delle sezioncine e delle carceri di massima sicurezza, i cosiddetti “carceri speciali”, sotto la direzione “esterna” all’amministrazione penitenziaria del Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. In queste carceri veniva applicata l’articolo 90 della Legge penitenziaria (l’antesignano di quello che oggi è l’art. 41 bis) che in pratica, per ragioni di ordine e sicurezza, sospendeva con decreto ministeriale, senza garanzie giurisdizionali, l’attuazione della Legge di riforma. Il Ministero applicò addirittura articoli 90 ad personam, nominativi, non a interi istituti penitenziari, come prevedeva la Legge, provocando lo sdegno di molti di noi magistrati. L’estensione del regime di massima sicurezza attrasse come una calamita i regimi detentivi di tutti i reparti e raggi degli istituti di pena. La massima sicurezza trainava tutto il sistema verso una maggiore rigidità. In ciò la politica penitenziaria convergeva con la politica della lotta armata perchè quest’ultima era contraria alla cosiddetta differenziazione dei circuiti penitenziari.
Hai avuto modo di venire a contatto anche con detenuti politici?
L’interlocuzione con i “prigionieri politici” era necessaria perchè chiedevano spesso del magistrato di sorveglianza o dei parlamentari di cui si fidavano. Le loro proteste talvolta erano violente: mettevano a fuoco i materassi, le suppellettili delle celle, salivano sui tetti o facevano il cosiddetto “salto del bancone” nelle sale colloqui per denunciare il problema dell’affettività. I leader della protesta ebbero un effetto trainante non soltanto delle rivolte dei detenuti comuni, ma anche delle proposte di leggi di riforma da parte di parlamentari. Il “carcere dei politici” divenne un luogo di elaborazione e riflessione, contribuendo a quella revisione della riforma penitenziaria che si concretizzò nel 1986 con la Legge Gozzini. Dopa una prima fase di scontro dei detenuti politici con le istituzioni, e di conseguenza con noi, irriducibili a parte, bisogna riconoscere che diedero un contributo al mutamento del sistema carcere. Il cambiamento fondamentale avvenne con la costituzione delle cosiddette “aree omogenee”. Si chiamavano così perchè raccoglievano in carceri diversi gruppi di detenuti accomunati da linee politiche omogenee, espresse nei processi e nei documenti elaborati rispetto alla lotta armata e avevano instaurato un rapporto di legittimazione reciproca con un determinato soggetto politico o un’area culturale, cattolica o marxista o socialista o sindacale e quindi, con la Caritas, il Partito comunista, i Valdesi, la Cisl, la Camera del Lavoro. Non erano pentiti, collaboratori di giustizia, ma “dissociati”, soggetti che riconoscevano come terminata la stagione della lotta armata e davano chiara e conseguente testimonianza. Ricordo quando tutti i “politici” erano concentrati al carcere sardo di Badu ‘e Carros, compresa la direzione strategica delle BR, e alcuni parlamentari della Sinistra Indipendente ci chiesero, come magistrati di sorveglianza, di andarli a visitare e di ragionare sui criteri di aggregazione delle aree omogenee. Allora vennero costituite le aree omogenee di Rebibbia, di San Vittore di Bergamo, che produssero una quantità di documenti di riflessione sulla vita in carcere, sullo stato dei diritti, sull’affettività, sul rapporto con la città, sul lavoro penitenziario, sulla salute, sui rapporti con il volontariato. Questi documenti, che poi confluirono nella redazione dei progetti di legge, furono il frutto di un apporto molto positivo, anche di soggetti autorevoli della cultura e della Chiesa. Per esempio, a San Vittore si costituì il gruppo di volontari della Nuova Corsia dei Servi con il teologo laico Mario Cuminetti, padre David Maria Turoldo, padre Camillo De Piaz e Lucia Pigni. Ricordo che autorizzai l’ingresso a San Vittore di Rossana Rossanda, del filosofo Salvatore Natoli, del sindacalista Sandro Antoniazzi, del pediatra Marcello Bernardi, di padre Bachelet, per tenere seminari sulle valenze della violenza, sulle parole delle armi e le armi della parola. Questi seminari poi venivano replicati nella libreria popolare di via Tadino con la partecipazione della cittadinanza.
Sono trascorsi trent’anni da quell’epoca, ma ne sembrano passati molti di più. Il mondo di oggi non ha conservato memoria di questo periodo storico. Quando si è prodotta una rottura rispetto a questo mondo?
Sia la riforma del 1975 sia la Legge Gozzini hanno avuto come spinta le richieste della popolazione detenuta. Oggi tutto questo sembra impossibile.
Sembra impossibile, però bisogna ricordare che c’e stata un’epoca in cui non si parlava di sorveglianza dinamica, ma in cui tuttavia le celle restavano aperte tutta la giornata, la libertà di movimento all’interno della sezione era totale e governata in modo responsabile. La spinta alla civilizzazione delle carceri arrivava anche dagli enti locali, in particolare le amministrazioni di sinistra e quelle rette da democristiani illuminati, non democristiani di casta, ma cattolici veramente credenti. La rottura credo si sia prodotta, purtroppo, con la strage di Capaci nel 1991-1992. Nella storia del sistema penale italiano, ogni qualvolta c’è stato qualche gravissimo evento traumatico, la prima manovra restrittiva è stata diretta sull’anello più facilmente aggredibile, quindi più debole del sistema e pagante per la spettacolarizzazione. La politica criminale italiana è stata sempre estremamente oscillante, mai chiara e ferma. E quindi in questi casi, per rassicurare l’opinione pubblica, si è mostrata una maggiore severità nei confronti dei detenuti. Basti pensare che dopo la strage di Capaci, con il decreto Martelli, ci fu una restrizione delle misure alternative: tutti i semiliberi, anche da anni, furono riportati in carcere e rinchiusi senza speranza per anni. Poi intervenne, su input di qualche Tribunale di Sorveglianza, la Corte costituzionale, ad affermare il principio, derivante dalla funzione rieducativa della pena, della non regressione trattamentale. Direi, quindi, che fu più influente l’emergenza mafia di quanto non sia stata l’emergenza terrorismo. In seguito, il profilo del recluso è cambiato e sono stati incarcerati più detenuti per fatti di criminalità organizzata. E con i migranti si è passati al carcere multietnico. Questi fenomeni hanno modificato il lavoro del magistrato di sorveglianza, soprattutto nell’approccio al carcere. Un altro grande cambiamento si è verificato nel periodo di Mani pulite. In quell’epoca non facevo il magistrato di sorveglianza, ero alla Procura Generale di Milano, ma frequentavo le carceri come volontario. Mani pulite ha segnato una svolta nel senso che l’incarcerazione di un certo numero di persone per le quali il carcere non era nato, cioè i politici di professione, i portaborse, i colletti bianchi… ha portato a un interessamento da parte della politica verso la vita all’interno degli istituti e, quindi, a un tentativo di civilizzare e umanizzare la pena.
Un pò come era avvenuto nell’Assemblea costituente, quando l’articolo 27 venne discusso da molti padri costituenti che avevano conosciuto le carceri fasciste. I tipi di Sellerio hanno pubblicato il bel libro di Elvio Fassone, Fine pena: ora, che narra della sua corrispondenza pluridecennale con un ergastolano. Ti è mai capitato di avere un rapporto simile con un detenuto?
Di Fassone ricordo il suo volume monografico sulla pena detentiva in Italia dall’Ottocento alla riforma del 1975 e il suo impegno per i magistrati di sorveglianza quando sedeva nel Consiglio Superiore della Magistratura. Si è interessato alla commissione mista dei magistrati di sorveglianza e, come parlamentare, ha lavorato in quegli anni alla legge Simeone-Saraceni per l’ampliamento delle misure alternative. Come giudice ha sempre avuto questa grande sensibilità verso il tema della pena. Ancora oggi ho buoni rapporti con ex detenuti politici che lavorano nel settore del volontariato o si occupano del recupero dei tossicodipendenti e che intrapresero un percorso col gruppo Cuminetti: Cecco Bellosi, Franco Bonisoli, Grazia Grena. Persone che non hanno avuto difficoltà, anche nei dibattiti pubblici, a stare allo stesso tavolo con magistrati, per raccontare del loro cammino. Può succedere di mantenere relazioni anche con detenuti comuni, ma in genere questi, nella mia esperienza, scontata la pena non si espongono per migliorare le condizioni del carcere. Talvolta mi emoziono e mi commuovo quando, in qualche mercato di Milano, rivedo ex detenuti tra gli ambulanti. Per lo più sono persone che al massimo mi chiedono se mi ricordo di loro e io non rispondo subito, perchè non vorrei pensassero che li ricordo solamente perchè erano carcerati. Poi ci sono persone che a distanza di anni continuano a inviarmi gli auguri di Natale, magari sbagliando l’indirizzo. Ricordo che Carlo Galante Garrone, che è stato sempre molto vicino alla magistratura di sorveglianza, andava frequentemente in carcere e aveva corrispondenze epistolari con i detenuti e i loro parenti, ma diceva spesso: “Meno male che sono parlamentare, perchè da alcune lettere potrebbe apparire qualche tipo di compromissione”. Si tratta di un crinale molto delicato.
Se dovessi descrivere a un giovane magistrato di oggi le principali differenze che intercorrono tra la tua epoca e quella odierna, che cosa potresti dire?
Gli chiederei innanzitutto se ha voglia di fare un lavoro difficile e di continuare a essere giudice, ovvero di esercitare la giurisdizione dei diritti per i detenuti come richiede la legge. Sono stato sempre contrario alla magistratura di sorveglianza a vita, convinto che uno degli aspetti positivi del nostro ordinamento sia la possibilità di cambiare funzione. Credo che i ruoli di magistrato di sorveglianza o minorile, svolti per troppo tempo e con intensità, determinino burn out a causa dell’eccessivo coinvolgimento emotivo che comportano. E’ sempre bene prendere un pò d’aria ogni tanto, staccare e magari riprendere. E questo ho cercato di fare. E’ un lavoro “senza rete”, nel senso che ti espone a rischi, non tanto per la tua vita, anche se ci sono state delle epoche in cui i magistrati di sorveglianza, e io stesso, hanno rischiato, sia nel periodo della lotta armata che della criminalità organizzata. II rischio che si corre oggi è quello di non essere valorizzati dalla stessa istituzione giudiziaria. II magistrato di sorveglianza viene ancora oggi percepito come un magistrato di serie B, nonostante tutti gli sforzi fatti per decenni. C’è, a tal proposito, anche un difetto nella formazione dei magistrati di sorveglianza. Non si fa capire fino in fondo quanta sia sempre una giurisdizione a tutto tondo. E quindi, che si deve rimanere estranei all’amministrazione penitenziaria. Questo non significa scontro continuo e permanente, ma il giudice è giudice e l’amministrazione fa parte dell’esecutivo. Spesso poi si ritiene che per essere giudici di sorveglianza si debba essere fuori e lontani dal carcere, in modo da non farsi condizionare: “Mi metto fuori per mettermi sopra”. Questa è una visione sbagliata perchè chi fa il magistrato di sorveglianza per vocazione e ha le spalle quadrate deve essere “al fianco”. Ho sempre detto agli uditori che bisogna trattare con i detenuti e con gli operatori seguendo il motto evangelico “il vostro parlare sia si si, no no”. I carcerati hanno costantemente dato segno di stimare il giudice che, quando va in carcere, con grande lealtà e senza essere vile, non fa false promesse, le promesse di Pinocchio. Bisogna avere il coraggio di dire no. E’ un atteggiamento rischioso, ma credo che la maggioranza dei carcerati l’abbia sempre apprezzato. La chiarezza, prima di tutto.
La cultura del magistrato molte volte tende a non essere coinvolta negli interventi cosiddetti di rete, che invece implicano un coinvolgimento di tutti i soggetti che collaborano ai percorsi di reinserimento dei condannati. L’essere coinvolti pur mantenendo un certo grado di indipendenza è forse la cosa più difficile per il magistrato?
II mestiere di magistrato di sorveglianza è tra quelli più complessi esistenti nel nostro ordinamento. Credo, tuttavia, che vi siano alcune pratiche virtuose che ci insegnano, direi in maniera quasi scientifica, come sia possibile fare il lavoro di rete pur rimanendo soggetti solo alla legge. Non lo affermo in astratto, ma per esperienza diretta: per esempio, in relazione alle misure alternative per le persone tossicodipendenti a Bologna, ho firmato protocolli di intesa tra Tribunale di sorveglianza e Ser.T. per elaborare insieme un comune linguaggio, comuni categorie di pensiero e modalità più agevoli per gestire le misure alternative. Rimane in questi casi sempre uno spazio di discrezionalità riservato al magistrato, ma questa discrezionalità non è autoritaria, arbitraria: diventa una discrezionalità all’interno di un confine definito. Altrettanto ho fatto per la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Credo che una buona premessa per il lavoro di rete sia quello dei protocolli di intesa, che richiedono una capacità di contaminare le categorie giuridiche con gli altri statuti professionali delle altre scienze non giuridiche. A questo proposito, il collegio è fondamentale perchè al suo interno c’è il contributo dell’esperto, dello psicologo, dello psichiatra, del pedagogista. Si tratta di esperti che non servono per fare beneficenza o per rendere umana la pena, ma contribuiscono alla decisione con il loro sapere.
Tra i fenomeni secondo me più inquietanti degli ultimi anni si è assistito a una sorta di rimilitarizzazione della polizia penitenziaria in seguito all’abolizione dell’obbligo del servizio di leva. E’ cosi?
La polizia penitenziaria nella storia del carcere italiano si è evoluta molto. Penso ai giovani laureati neoassunti e a tanto personale di polizia penitenziaria attento e sensibile. Se ci fosse una formazione adeguata e selettiva dei commissari di polizia penitenziaria, non sarei contrario neanche alla loro direzione di istituti penitenziari in cui non fossero particolarmente pressanti le esigenze di reinserimento sociale. Ciò che mi preoccupa di più, invece, è questo fenomeno di persone che vengono distaccate in carcere dall’esercito o che lasciano l’Arma dei Carabinieri ed entrano in polizia penitenziaria. Inevitabilmente, almeno in una prima fase di lavoro, sono agenti che possono provocare degli arretramenti, un irrigidimento del sistema. I militari che tornano dall’Afghanistan o dal Libano e vanno in polizia penitenziaria creano inevitabilmente dei problemi dal punto di vista delle attività trattamentali. A prescindere dalla loro volontà individuale, ma in base al loro profilo professionale. E’ ormai chiaro che il nostro sistema penale e penitenziario non potrà reggere a lungo così com’è, è un abito vecchio troppo rattoppato. Gli Stati generali sull’esecuzione penale possono essere un ottimo volano per modificare completamente il sistema. Questi hanno già prodotto qualcosa che ancora non è emerso in superficie, ma che ha animato e superato l’eccessiva immobilità degli ultimi anni. Duecento esperti che discutono di carcere, si confrontano con l’università, vanno nelle prigioni, modificano la cultura dell’opinione pubblica sul carcere e sulla pena. Qui a Milano, per effetto degli Stati generali, stanno entrando negli istituti molti professori universitari ed esperti di ogni tipo. Bisognerà che questo lavoro si trasformi in modo omogeneo e coerente in dettato normativo. Ma questa lo si può fare soltanto distruggendo l’abito vecchio. Sono molto scettico sull’attuale struttura ordinamentale dei Tribunali di sorveglianza: bisognerebbe abolire gli uffici di sorveglianza e istituire un unico Tribunale di sorveglianza distrettuale come quello per i minori. II mondo in cui viviamo e la geografia italiana sono cambiati rispetto a quelli del 1975. Uffici di sorveglianza con un unico magistrato di sorveglianza a che cosa servono? Sono tutti residui burocratici che rallentano complessivamente il sistema. Occorre una nuova sensibilità della cultura giuridica ai problemi organizzativi. Tale sensibilità era patrimonio anche dei vecchi presidenti di tribunale: personaggi come Alessandro Margara e Mario Canepa avevano molto chiaro il disegno organizzativo dei loro uffici giudiziari. E all’interno del Consiglio stesso deve maturare una competenza specifica in materia di esecuzione penale. Non è possibile, come avviene oggi, che non ci sia tra i componenti togati eletti almeno un magistrato di sorveglianza, nè tra gli accademici nominati qualcuno che insegni diritto penitenziario. Altrimenti sembrerà che i quarant’anni dalla riforma siano passati invano.
Fonte: GALERE D’ITALIA di Antigone